mad19c'era una volta |
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Carissimi Amici del “Il Ponte di Stelle”
Lo scorso Agosto 8 giovani, Barbara, Carlotta, Chiara, Davide, Elena, Giulia, Matilde e Sara sono partiti, dopo mesi di preparazione, per MAD19: esperienza fraterna di volontariato in Madagascar nelle Missioni di Padre Pierino Limonta, missionario Monfortano.
«Se si sogna da soli, rimane solo un sogno. Se si sogna in compagnia, è l’inizio della realtà».
MAD 19… è stata proprio la voglia di realizzare un sogno… il sogno di conoscere un mondo diverso… il sogno di fare un viaggio fisico, ma soprattutto interiore, per imparare a tornare nella vita di tutti i giorni con uno sguardo diverso, con la capacità di dare valore alle cose preziose e veramente importanti.
Non importa se sia la prima o la decima esperienza di viaggio, il Madagascar riesce sempre a riportarti all’essenza dei valori reali, l’accoglienza, l’amicizia, l’autenticità, la semplicità dei gesti, la verità degli sguardi.
La Missione li ha toccati nel cuore…e sono tornati carichi del desiderio di comunicare a tutti quello che hanno vissuto
La loro Storia ha incontrato la storia di tanti bambini, ragazzi, adulti… e insieme si scrive la storia di una comunità, la speranza della vita!
Lo scorso Agosto 8 giovani, Barbara, Carlotta, Chiara, Davide, Elena, Giulia, Matilde e Sara sono partiti, dopo mesi di preparazione, per MAD19: esperienza fraterna di volontariato in Madagascar nelle Missioni di Padre Pierino Limonta, missionario Monfortano.
«Se si sogna da soli, rimane solo un sogno. Se si sogna in compagnia, è l’inizio della realtà».
MAD 19… è stata proprio la voglia di realizzare un sogno… il sogno di conoscere un mondo diverso… il sogno di fare un viaggio fisico, ma soprattutto interiore, per imparare a tornare nella vita di tutti i giorni con uno sguardo diverso, con la capacità di dare valore alle cose preziose e veramente importanti.
Non importa se sia la prima o la decima esperienza di viaggio, il Madagascar riesce sempre a riportarti all’essenza dei valori reali, l’accoglienza, l’amicizia, l’autenticità, la semplicità dei gesti, la verità degli sguardi.
La Missione li ha toccati nel cuore…e sono tornati carichi del desiderio di comunicare a tutti quello che hanno vissuto
La loro Storia ha incontrato la storia di tanti bambini, ragazzi, adulti… e insieme si scrive la storia di una comunità, la speranza della vita!
MAD19
STORIA DI UN VIAGGIO: PONTE DI VITA
- ESSERE TESSITORI DI UNA STORIA –
carlotta
Partire per il Madagascar era sia un sogno sia un bisogno che ha iniziato a crescermi dentro quando ero bambina. Sono arrivata all’età di 19 piena di domande che mi frullavano per la testa, di dubbi e insicurezze, mi sentivo vuota e inutile. Avevo talmente bisogno di fare del bene, di aiutare l’altro e di trovare me stessa che ho deciso di raccogliere me e il sogno di una vita e di spiccare il volo, verso quell’isola lontana che speravo mi avrebbe cambiato la vita. E di fatto è andata così.
Immaginavo me e i miei compagni di viaggio come degli eroi, pronti a far felici bambini sfortunati e a cambiare le cose. Ma in realtà sono stati loro a cambiarci, a lasciare un segno indelebile con i loro occhi pieni di stelle e di affetto.
In Madagascar ogni cosa è amplificata, a partire dai suoni della natura e dei canti da chiesa alle 6 del mattino, il sapore della frutta e delle pietanze malgasce, fino ad arrivare alle relazioni con gli altri e le emozioni. Già dal primo giorno di cre mi sentivo cambiata. Avete presente la sensazione? Tornare a casa, da Padre Pierino a Tamatave, stanchi morti, sudati e con una fame da lupi (che sarà poi placata abbondantemente dalle mitiche Valerienne e Vera, fedeli cuoche di Pierino) ma con un sorriso immenso sul viso e la soddisfazione di chi ha dato il meglio di sé per un gruppo di 500 bambini circa? Appena arrivata al San Giovanni quella mattina avevo paura, lo ammetto. Pensavo di non essere all’altezza o di non saper cosa fare per conquistare la stima dei bimbi, farli divertire. Non avevo mai fatto un’esperienza simile e, nonostante fossi l’unica del gruppo a parlare francese (mi hanno nominato interprete ufficiale e “Charlotte, mi traduci...” è la frase che ho sentito di più durante il viaggio), nonostante potessi comunicare con loro, avevo paura che si creasse una barriera, un muro tra me e quei centinaia di occhi scuri che mi fissavano. Non solo, temevo di trovarmi di fronte a situazioni tristi e di non sopportare la povertà e la possibile tristezza di chi è meno fortunato. In realtà sono stata presa in contro piede! All’arrivo nel grande cortile della parrocchia, un’orda di bambini di tutte le età, accompagnati dai loro animatori, più o meno della nostra età, ci sono piombati addosso urlando e acclamandoci come se fossimo delle star. Non mi sono mai sentita così apprezzata da qualcuno che non conoscevo! Le mie paure si sono volatilizzate in un attimo e mi sono lasciata andare a ritmo di musica, quella musica che spesso mi suona ancora nelle orecchie e nel cuore ripensando a tutti loro. Ballare e cantare è un aspetto fondamentale in Madagascar. Come si muovono loro non si muove nessuno, sono tutti dei Michael Jackson, grandi e piccini. Comunicano la loro gioia di vivere e allegria, ma anche tristezza e rabbia, muovendo il corpo, i piedi, cantando e battendo le mani. Ce l’hanno nel sangue e per me è stato un dono potermi lasciar andare con loro, farmi coinvolgere dal ritmo. L’ultimo giorno insieme, alla gita con le due parrocchie, è stato indimenticabile per questo. Avendo finito il repertorio di giochi da fare con i bimbi, ci è venuta l’idea di lanciare una sfida di ballo: Madagascar’s got talent. Dopo 15 minuti erano tutti pronti a mostrarci le loro coreografie: in cerchio, tra gli applausi dei compagni, ogni bimbo si lanciava nel mezzo e… flash mob. Sono così competitivi e geneticamente portati al ballo che per decidere quale fosse il gruppo vincitore si è rivelato più complicato del previsto.
Una delle cose che ho notato di più, una volta rientrata in Italia, è l’insoddisfazione perenne e la mancanza di semplicità in quello che facciamo, soprattutto nei bambini. I bambini di qui sono avanti, sono svegli, sanno usare alla perfezione ogni dispositivo elettronico e, spesso assecondati dalla famiglia, non sono mai contenti, vogliono ogni volta più di quello che hanno. Insomma, sono piccoli adulti, hanno perso la semplicità e l’ingenuità che dovrebbe caratterizzarli. Faccio un esempio banale: quest’anno il Ponte di Stelle mi ha contattata per animare la marcia di Mapello, far ballare e giocare i bambini presenti. Io e le altre animatrici siamo state completamente snobbate, abbiamo letteralmente ballato da sole, cosa che in Madagascar è fuori questione. Ai bambini basta un nulla, una canzone anche ripetuta 100 volte, un gioco con le mani, una bandierina improvvisata o una palla assemblata con materiali presi a caso dalla strada. L’aneddoto che più racconto è quando Davide, il Babbo Natale del gruppo, vedendo un gruppo di bambini giocare con un ammasso di corde attorcigliate, ha tirato fuori un pallone dallo zaino, l’ha gonfiato e gliel’ha lanciato. Ha regalato loro un sogno! Magari tra quei bambini c’era il prossimo Cristiano Ronaldo…
È questo che ho amato più del Madagascar, la semplicità delle persone, la loro gioia e allegria nonostante la qualità della vita e il benessere non siano tra i più alti. Hanno il minimo indispensabile e gli basta. Ho amato anche il fatto che tutto sia così vero e sincero, l’affetto dei bambini, i doni dei loro genitori per ringraziarci di aver giocato con loro, la calorosa accoglienza che ci hanno sempre riservato. Qui in Italia, così come in tutti i paesi sviluppati, abbiamo la fortuna di avere materialmente tutto quello che vogliamo, ma la sfortuna di aver perso di vista ciò che è importante: sentirsi liberi e spensierati, ancora bambini, gioire per le piccole cose e stringere relazioni attive e sincere con l’altro. Infatti, tra tutti i bambini incontrati spesso accade che avvenga un colpo di fulmine, che si sviluppi un’amicizia speciale tra te e un bambino in particolare. A me è capitato, l’ho preso sotto la mia ala e lui mi ha presa come punto di riferimento. Abbiamo inventato un nostro saluto e spesso giocavamo insieme, chiacchieravamo in francese e un giorno mi ha portato un disegno con scritto “Ma princesse préférée, c’est Charlotte”, la mia principessa preferita è Carlotta. Nessuno mi aveva mai detto una cosa così bella e sincera, mi sono commossa. Così come ci siamo commossi entrambi al momento della mia partenza, un ricordo che mi rimarrà impresso nel cuore. Spero tanto di vederlo presto, lui e gli altri bambini malgasci.
Lo scrittore russo Vladimir Nabokov una volta ha scritto “Un bambino è la forma più perfetta di essere umano”. Laggiù in Madagascar ho riscoperto la me bambina, l’autentica e più bella versione di Carlotta, piena di doti nascoste e forza di volontà, una Carlotta che qui è invece repressa e giace immobile, tra la polvere accumulata negli anni.
Mi serviva una boccata d’aria nuova, una riscoperta e un’esperienza così liberatoria. È per questo motivo che sono loro che hanno fatto tutto, noi volontari siamo solo dettagli.
Non saprei chi ringraziare per primo, chi ha creduto nel mio sogno e che l’ha alimentato, chi mi ha dato i mezzi fisici per farlo e chi mi ha indirizzata. Chi mi ha accompagnata, chi mi ha accolta con amore e come se fossi a casa mia, chi mi ha fatto vivere la bella esperienza che è stata. Un grazie anche a chi mi ascolta ora e che mi ascolterà, lasciandosi toccare dalle mie parole e magari facendosi nascere dentro un sogno che, a sua volta, lo porterà in Madagascar. Diffondere sogni, è così che il mio viaggio continua.
Un grazie a tutti, e buone feste.
Immaginavo me e i miei compagni di viaggio come degli eroi, pronti a far felici bambini sfortunati e a cambiare le cose. Ma in realtà sono stati loro a cambiarci, a lasciare un segno indelebile con i loro occhi pieni di stelle e di affetto.
In Madagascar ogni cosa è amplificata, a partire dai suoni della natura e dei canti da chiesa alle 6 del mattino, il sapore della frutta e delle pietanze malgasce, fino ad arrivare alle relazioni con gli altri e le emozioni. Già dal primo giorno di cre mi sentivo cambiata. Avete presente la sensazione? Tornare a casa, da Padre Pierino a Tamatave, stanchi morti, sudati e con una fame da lupi (che sarà poi placata abbondantemente dalle mitiche Valerienne e Vera, fedeli cuoche di Pierino) ma con un sorriso immenso sul viso e la soddisfazione di chi ha dato il meglio di sé per un gruppo di 500 bambini circa? Appena arrivata al San Giovanni quella mattina avevo paura, lo ammetto. Pensavo di non essere all’altezza o di non saper cosa fare per conquistare la stima dei bimbi, farli divertire. Non avevo mai fatto un’esperienza simile e, nonostante fossi l’unica del gruppo a parlare francese (mi hanno nominato interprete ufficiale e “Charlotte, mi traduci...” è la frase che ho sentito di più durante il viaggio), nonostante potessi comunicare con loro, avevo paura che si creasse una barriera, un muro tra me e quei centinaia di occhi scuri che mi fissavano. Non solo, temevo di trovarmi di fronte a situazioni tristi e di non sopportare la povertà e la possibile tristezza di chi è meno fortunato. In realtà sono stata presa in contro piede! All’arrivo nel grande cortile della parrocchia, un’orda di bambini di tutte le età, accompagnati dai loro animatori, più o meno della nostra età, ci sono piombati addosso urlando e acclamandoci come se fossimo delle star. Non mi sono mai sentita così apprezzata da qualcuno che non conoscevo! Le mie paure si sono volatilizzate in un attimo e mi sono lasciata andare a ritmo di musica, quella musica che spesso mi suona ancora nelle orecchie e nel cuore ripensando a tutti loro. Ballare e cantare è un aspetto fondamentale in Madagascar. Come si muovono loro non si muove nessuno, sono tutti dei Michael Jackson, grandi e piccini. Comunicano la loro gioia di vivere e allegria, ma anche tristezza e rabbia, muovendo il corpo, i piedi, cantando e battendo le mani. Ce l’hanno nel sangue e per me è stato un dono potermi lasciar andare con loro, farmi coinvolgere dal ritmo. L’ultimo giorno insieme, alla gita con le due parrocchie, è stato indimenticabile per questo. Avendo finito il repertorio di giochi da fare con i bimbi, ci è venuta l’idea di lanciare una sfida di ballo: Madagascar’s got talent. Dopo 15 minuti erano tutti pronti a mostrarci le loro coreografie: in cerchio, tra gli applausi dei compagni, ogni bimbo si lanciava nel mezzo e… flash mob. Sono così competitivi e geneticamente portati al ballo che per decidere quale fosse il gruppo vincitore si è rivelato più complicato del previsto.
Una delle cose che ho notato di più, una volta rientrata in Italia, è l’insoddisfazione perenne e la mancanza di semplicità in quello che facciamo, soprattutto nei bambini. I bambini di qui sono avanti, sono svegli, sanno usare alla perfezione ogni dispositivo elettronico e, spesso assecondati dalla famiglia, non sono mai contenti, vogliono ogni volta più di quello che hanno. Insomma, sono piccoli adulti, hanno perso la semplicità e l’ingenuità che dovrebbe caratterizzarli. Faccio un esempio banale: quest’anno il Ponte di Stelle mi ha contattata per animare la marcia di Mapello, far ballare e giocare i bambini presenti. Io e le altre animatrici siamo state completamente snobbate, abbiamo letteralmente ballato da sole, cosa che in Madagascar è fuori questione. Ai bambini basta un nulla, una canzone anche ripetuta 100 volte, un gioco con le mani, una bandierina improvvisata o una palla assemblata con materiali presi a caso dalla strada. L’aneddoto che più racconto è quando Davide, il Babbo Natale del gruppo, vedendo un gruppo di bambini giocare con un ammasso di corde attorcigliate, ha tirato fuori un pallone dallo zaino, l’ha gonfiato e gliel’ha lanciato. Ha regalato loro un sogno! Magari tra quei bambini c’era il prossimo Cristiano Ronaldo…
È questo che ho amato più del Madagascar, la semplicità delle persone, la loro gioia e allegria nonostante la qualità della vita e il benessere non siano tra i più alti. Hanno il minimo indispensabile e gli basta. Ho amato anche il fatto che tutto sia così vero e sincero, l’affetto dei bambini, i doni dei loro genitori per ringraziarci di aver giocato con loro, la calorosa accoglienza che ci hanno sempre riservato. Qui in Italia, così come in tutti i paesi sviluppati, abbiamo la fortuna di avere materialmente tutto quello che vogliamo, ma la sfortuna di aver perso di vista ciò che è importante: sentirsi liberi e spensierati, ancora bambini, gioire per le piccole cose e stringere relazioni attive e sincere con l’altro. Infatti, tra tutti i bambini incontrati spesso accade che avvenga un colpo di fulmine, che si sviluppi un’amicizia speciale tra te e un bambino in particolare. A me è capitato, l’ho preso sotto la mia ala e lui mi ha presa come punto di riferimento. Abbiamo inventato un nostro saluto e spesso giocavamo insieme, chiacchieravamo in francese e un giorno mi ha portato un disegno con scritto “Ma princesse préférée, c’est Charlotte”, la mia principessa preferita è Carlotta. Nessuno mi aveva mai detto una cosa così bella e sincera, mi sono commossa. Così come ci siamo commossi entrambi al momento della mia partenza, un ricordo che mi rimarrà impresso nel cuore. Spero tanto di vederlo presto, lui e gli altri bambini malgasci.
Lo scrittore russo Vladimir Nabokov una volta ha scritto “Un bambino è la forma più perfetta di essere umano”. Laggiù in Madagascar ho riscoperto la me bambina, l’autentica e più bella versione di Carlotta, piena di doti nascoste e forza di volontà, una Carlotta che qui è invece repressa e giace immobile, tra la polvere accumulata negli anni.
Mi serviva una boccata d’aria nuova, una riscoperta e un’esperienza così liberatoria. È per questo motivo che sono loro che hanno fatto tutto, noi volontari siamo solo dettagli.
Non saprei chi ringraziare per primo, chi ha creduto nel mio sogno e che l’ha alimentato, chi mi ha dato i mezzi fisici per farlo e chi mi ha indirizzata. Chi mi ha accompagnata, chi mi ha accolta con amore e come se fossi a casa mia, chi mi ha fatto vivere la bella esperienza che è stata. Un grazie anche a chi mi ascolta ora e che mi ascolterà, lasciandosi toccare dalle mie parole e magari facendosi nascere dentro un sogno che, a sua volta, lo porterà in Madagascar. Diffondere sogni, è così che il mio viaggio continua.
Un grazie a tutti, e buone feste.
chiara
L’essenziale
“ è solo con il cuore che si può vedere veramente, l’essenziale è invisibile agli occhi”
Quando le persone diventano adulte, non danno più valore alle piccole cose e sono più attente alle apparenze.
Dunque, si vive cercando di dimostrare qualcosa agli altri, e si perde la facoltà di percepire la bellezza della vita.
In altre parole, crescendo, si dimentica come si fa a essere felici, e si smette di essere spontanei. In realtà, è solo con il cuore che si può vedere veramente, l’essenziale è invisibile agli occhi.
Si può tornare a vivere con poche cose?
Maggiori sono i nostri bisogni, minore è la nostra gioia
La dinamicità, la fretta, la routine di tutti i giorni non ci permette sempre di metterci in contatto con i sentimenti e gli stati d’animo più profondi della nostra anima.
Bisogna stare a contatto con realtà come quella del Madagascar, per riscoprire il necessario, l’essenziale.
Esperienza a Pacambo.
Concetto del mora mora per spiegare una concezione diversa della vita europea che ci caratterizza.
Quando si riesce finalmente a cogliere l’essenziale (io ho avuto la fortuna di sperimentare questa sensazione in madagascar) allora riesci a capire di quante cose futili ci riempiamo tutti i giorni.
Italiani e Malgasci bisogni superflui diversi ma bisogni essenziali uguali = stare in una comunità, sentirsi amati, sentirsi necessari a qualcosa, entrare in contatto con Dio, ricerca di armonia.
Entrare in contatto con l’altro è un modo efficace per ritrovare l’essenziale, sentire esperienze diverse di vita (testimonianza di padre pierino, racconta dei sui anni nella foresta al servizio degli altri).
Rendersi più consapevoli delle mie scelte e dell’uso del mio tempo.
Cercare di distinguere l’essenziale da ciò che è soltanto secondario e superfluo.
Organizzare lo svolgersi della giornata senza farsi trascinare
“ è solo con il cuore che si può vedere veramente, l’essenziale è invisibile agli occhi”
Quando le persone diventano adulte, non danno più valore alle piccole cose e sono più attente alle apparenze.
Dunque, si vive cercando di dimostrare qualcosa agli altri, e si perde la facoltà di percepire la bellezza della vita.
In altre parole, crescendo, si dimentica come si fa a essere felici, e si smette di essere spontanei. In realtà, è solo con il cuore che si può vedere veramente, l’essenziale è invisibile agli occhi.
Si può tornare a vivere con poche cose?
Maggiori sono i nostri bisogni, minore è la nostra gioia
La dinamicità, la fretta, la routine di tutti i giorni non ci permette sempre di metterci in contatto con i sentimenti e gli stati d’animo più profondi della nostra anima.
Bisogna stare a contatto con realtà come quella del Madagascar, per riscoprire il necessario, l’essenziale.
Esperienza a Pacambo.
Concetto del mora mora per spiegare una concezione diversa della vita europea che ci caratterizza.
Quando si riesce finalmente a cogliere l’essenziale (io ho avuto la fortuna di sperimentare questa sensazione in madagascar) allora riesci a capire di quante cose futili ci riempiamo tutti i giorni.
Italiani e Malgasci bisogni superflui diversi ma bisogni essenziali uguali = stare in una comunità, sentirsi amati, sentirsi necessari a qualcosa, entrare in contatto con Dio, ricerca di armonia.
Entrare in contatto con l’altro è un modo efficace per ritrovare l’essenziale, sentire esperienze diverse di vita (testimonianza di padre pierino, racconta dei sui anni nella foresta al servizio degli altri).
Rendersi più consapevoli delle mie scelte e dell’uso del mio tempo.
Cercare di distinguere l’essenziale da ciò che è soltanto secondario e superfluo.
Organizzare lo svolgersi della giornata senza farsi trascinare
elena
Sono partita per il Madagascar senza aspettative particolari ma con una grande curiosità e voglia di vivere in prima persona tutti i racconti che avevo sentito su questo Paese meraviglioso e sulla carica travolgente delle persone che ci vivono. Ho compreso di aver fatto la scelta giusta subito dopo essere atterrati ad Antananarivo, non so se sia stato anche per la premurosa accoglienza fatta da Padre Pierino alle 3 di notte in aeroporto, fatto sta che durante il viaggio in piena notte verso la casa dei padri monfortani, guardando fuori dal finestrino e vedendo quel poco che la luce della luna e delle stelle illuminavano, ho avuto la sensazione di essere nel posto giusto, di essere paradossalmente in sintonia con quello che osservavo anche se era molto distante da quello che si può immaginare pensando ad una capitale. Ne ho avuto la conferma osservando gli stessi luoghi con la luce del sole animati da moltissima gente che si muoveva per le strade creando una sorta di caos armonico e in particolare all’arrivo a Tamatave e durante il primo incontro con i bimbi; quando ho visto i loro sorrisi, la loro gioia, la loro energia travolgente, la loro meraviglia, il loro calore e il loro affetto incondizionato. Sorrisi e gesti che acquistano ancora più valore quando, grazie ai racconti e alle spiegazioni di Padre Pierino, inizi a comprendere davvero la realtà in cui vivono.
Questo viaggio mi ha permesso di conoscere persone meravigliose e di comprendere, dopo aver ascoltato le loro storie di vita, quanto il fatto che vivano situazioni critiche che destabilizzerebbero chiunque le renda ancora più belle. Belle perché fioriscono dalle loro avversità e non si fanno distruggere da esse, belle perché dimostrano sensibilità, empatia, coraggio e forza disarmanti.
Belle perché ti fanno sentire a casa, parte di una famiglia oltre frontiere, oltre confini, oltre tradizioni e oltre cultura: infatti posso dire di aver iniziato il viaggio con un gruppo formato da otto persone e di averlo terminato sentendomi parte di un’intera comunità. Ti fanno sentire parte di tutto ciò prendendoti per mano e guidandoti lungo un sentiero sabbioso verso la parrocchia di San Giovanni XXIII, offrendoti la merenda durante l’intervallo dopo aver fatto un’attività insieme a loro nelle classi della parrocchia del Sacro Cuore, correndoti incontro e abbracciandoti ogni volta che ti vedono, trascinandoti a ballare con loro a ritmo di musiche e danze così allegre e movimentate da rimanerti in testa anche al ritorno a casa, insegnandoti canzoni in francese con una pazienza disarmante seduti sulla scalinata nel cuore di Annivorano, accogliendoti sulla riva di un fiume e guidandoti con canti e balli verso il villaggio di Pacambo e in altri 1000 modi diversi.
Sono partita per il Madagascar con un bagaglio emotivo misero e sono tornata con uno talmente carico da non riuscire a comprenderlo. Ho scoperto un senso di gratitudine vero e profondo, la riconoscenza per ogni momento e le opportunità che scaturiscono da esso. Ho imparato a fermarmi e ad osservare quanta ricchezza ci viene data e a goderne; ma soprattutto ho imparato a condividerla. Il Madagascar mi ha permesso di capire cosa ha davvero valore, a cosa stavo rinunciando dando troppo peso a cose materiali trascurando la bellezza e l’importanza delle relazioni; ma soprattutto ho compreso che le persone non sono belle per come appaiono o per come parlano ma lo sono per come sono in grado di condividere emozioni, amore, empatia, calore, gentilezza e fragilità.
Questo viaggio mi ha permesso di conoscere persone meravigliose e di comprendere, dopo aver ascoltato le loro storie di vita, quanto il fatto che vivano situazioni critiche che destabilizzerebbero chiunque le renda ancora più belle. Belle perché fioriscono dalle loro avversità e non si fanno distruggere da esse, belle perché dimostrano sensibilità, empatia, coraggio e forza disarmanti.
Belle perché ti fanno sentire a casa, parte di una famiglia oltre frontiere, oltre confini, oltre tradizioni e oltre cultura: infatti posso dire di aver iniziato il viaggio con un gruppo formato da otto persone e di averlo terminato sentendomi parte di un’intera comunità. Ti fanno sentire parte di tutto ciò prendendoti per mano e guidandoti lungo un sentiero sabbioso verso la parrocchia di San Giovanni XXIII, offrendoti la merenda durante l’intervallo dopo aver fatto un’attività insieme a loro nelle classi della parrocchia del Sacro Cuore, correndoti incontro e abbracciandoti ogni volta che ti vedono, trascinandoti a ballare con loro a ritmo di musiche e danze così allegre e movimentate da rimanerti in testa anche al ritorno a casa, insegnandoti canzoni in francese con una pazienza disarmante seduti sulla scalinata nel cuore di Annivorano, accogliendoti sulla riva di un fiume e guidandoti con canti e balli verso il villaggio di Pacambo e in altri 1000 modi diversi.
Sono partita per il Madagascar con un bagaglio emotivo misero e sono tornata con uno talmente carico da non riuscire a comprenderlo. Ho scoperto un senso di gratitudine vero e profondo, la riconoscenza per ogni momento e le opportunità che scaturiscono da esso. Ho imparato a fermarmi e ad osservare quanta ricchezza ci viene data e a goderne; ma soprattutto ho imparato a condividerla. Il Madagascar mi ha permesso di capire cosa ha davvero valore, a cosa stavo rinunciando dando troppo peso a cose materiali trascurando la bellezza e l’importanza delle relazioni; ma soprattutto ho compreso che le persone non sono belle per come appaiono o per come parlano ma lo sono per come sono in grado di condividere emozioni, amore, empatia, calore, gentilezza e fragilità.
davide
Per cercare di capire, immedesimarsi nei racconti che state ascoltando è (a mio parere) necessario cercare di spogliarsi di tutte le cose superflue cui ci nutriamo ogni giorno, cercare di scremare tutte le comodità e la fretta e ansia dettata nel nostro mondo. Che cosa rimane? Rimane emozioni, fede e fatica.
LA FEDE
La fede è un pilastro nella società malgascia. La gente si alza alle 5 di mattina per andare a messa prima di una giornata di lavoro, la domenica si ritrova in chiesa per pregare e condividere momenti di festa. Come si diceva in qualche riflessione la chiesa è centro di aggregazione. L’andare a messa non è una consuetudine. Mi ha colpito la devozione e il sapersi completamente affidare alla provvidenza.
Di conseguenza anche la figura del Prete risulta di rilevo nella società, un punto di riferimento, d’ascolto e consiglio non solo riguardo ad argomenti religiosi ma di vita quotidiana ed è per questo che “l’ufficio” di Padre Pierino è un via vai di gente a tutte le ore del giorno.
LA FATICA
La fatica è ovunque. Ogni attività lavorativa è fatica. Partendo dagli autisti che ti portano in giro in bici, a chi trasporta merci spingendo il carretto; più si esce dalla comodità della città più la vita è fatica.
EMOZIONI
Si riesce a percepire le emozioni in modo diverso, si percepisce la spontaneità nei gesti e sentimenti. Essendo poi a contatto con i bambini la cosa viene amplificata. Non hanno paura di cercarti, di prenderti la mano o ricevere una carezza. Anche se i bambini sono dappertutto, basta una piccola attenzione per farli contenti.
Volevo inoltre soffermarmi su piccoli punti che rimangono dopo questa esperienza:
-GRUPPO. Vivendo 3 settimene con i tuoi compagni, scusate, compagne di viaggio si crea un legame forte e diverso dal solito dovuta alla condivisione di un esperienza insolta. Ci si conosce più a fondo e per quello che si è veramente, senza maschere perché impossibili da portare, con i propri limiti e capacità.
-SODDISFAZIONI. Ognuno parte con il proprio bagaglio personale, con le proprie attitudini che possono essere utilizzate per far prendere una sfumatura diversa all’esperienza. L’impegnarsi e la condivisione del progetto, può portare anche delle soddisfazioni personali.
-RIFLESSIONE. Si creano delle situazioni di riflessione e anche di rilassamento mentale che sono dovute al contesto. Penso al viaggio di ritorno da Pacambo o ascoltare la musica di un coro appena fuori casa al tramonto che possono essere momenti sia di svago o introspezione.
LA FEDE
La fede è un pilastro nella società malgascia. La gente si alza alle 5 di mattina per andare a messa prima di una giornata di lavoro, la domenica si ritrova in chiesa per pregare e condividere momenti di festa. Come si diceva in qualche riflessione la chiesa è centro di aggregazione. L’andare a messa non è una consuetudine. Mi ha colpito la devozione e il sapersi completamente affidare alla provvidenza.
Di conseguenza anche la figura del Prete risulta di rilevo nella società, un punto di riferimento, d’ascolto e consiglio non solo riguardo ad argomenti religiosi ma di vita quotidiana ed è per questo che “l’ufficio” di Padre Pierino è un via vai di gente a tutte le ore del giorno.
LA FATICA
La fatica è ovunque. Ogni attività lavorativa è fatica. Partendo dagli autisti che ti portano in giro in bici, a chi trasporta merci spingendo il carretto; più si esce dalla comodità della città più la vita è fatica.
EMOZIONI
Si riesce a percepire le emozioni in modo diverso, si percepisce la spontaneità nei gesti e sentimenti. Essendo poi a contatto con i bambini la cosa viene amplificata. Non hanno paura di cercarti, di prenderti la mano o ricevere una carezza. Anche se i bambini sono dappertutto, basta una piccola attenzione per farli contenti.
Volevo inoltre soffermarmi su piccoli punti che rimangono dopo questa esperienza:
-GRUPPO. Vivendo 3 settimene con i tuoi compagni, scusate, compagne di viaggio si crea un legame forte e diverso dal solito dovuta alla condivisione di un esperienza insolta. Ci si conosce più a fondo e per quello che si è veramente, senza maschere perché impossibili da portare, con i propri limiti e capacità.
-SODDISFAZIONI. Ognuno parte con il proprio bagaglio personale, con le proprie attitudini che possono essere utilizzate per far prendere una sfumatura diversa all’esperienza. L’impegnarsi e la condivisione del progetto, può portare anche delle soddisfazioni personali.
-RIFLESSIONE. Si creano delle situazioni di riflessione e anche di rilassamento mentale che sono dovute al contesto. Penso al viaggio di ritorno da Pacambo o ascoltare la musica di un coro appena fuori casa al tramonto che possono essere momenti sia di svago o introspezione.
giulia
Io sono partita principalmente perché quando sono venuta l’anno scorso a questo incontro. mi avevano colpita i sorrisi dei bambini malgasci e soprattutto gli occhi di chi li ha incontrati, di chi era partito per quest’esperienza. Allora mi sono convinta e quest’estate sono partita anche io. Ero molto in ansia la sera prima lo ammetto, non sapevo come avrei potuto comunicare dato che la mia conoscenza del francese era pari a zero. Una volta arrivata però, la loro accoglienza e il loro amore mi hanno subito tranquillizzata. Sono state tre settimane nelle quali ho capito che si, noi siamo andati da loro per aiutarli, ma si tratta per lo più di un dare e ricevere.
Ho ricevuto tanto, affetto e felicità. I malgasci mi hanno aiutato a ritrovarmi, a stare bene con me stessa, e con gli altri. Ciò è stato possibile anche grazie a dei compagni di viaggio che si sono rivelati delle bellissime persone e con cui si è creato un rapporto fantastico dopo pochi giorni. la sera dopo le lunghe giornate passate con i bambini tornavo a casa stremata ma non mi pesava più di tanto, perché ero talmente soddisfatta di quello che avevo fatto e della gioia che mi infondevano i bambini che la stanchezza passava in secondo piano. E poi, mi sono resa conto di quanto qua in Italia io mi lamentassi, succede anche ora lo dico, per cose veramente inutili. Perché loro che, materialmente non hanno praticamente nulla, non li ho mai visti una volta senza sorriso o voglia di fare. Vuoti materialmente ma ricchi smisuratamente dentro. Il loro stile di vita metterebbe in difficoltà ognuno di noi, eppure a livello umano hanno moltissimo da offrire. In particolare una ragazza mi ha lasciato un segno indelebile. Si chiama Anithosine, ha 21 anni ed è sempre stata vicino ai gruppi che sono scesi prima di me e gli altri, aiutava ed era sempre disponibile. Io l’ho conosciuta il secondo giorno, si è presentata con suo figlio, Richardino di 1 anno , e da quel giorno non ci ha mai mollati un secondo. Si faceva km a piedi per venire da noi e non si è smentita nemmeno l’ultima mattina, quando, per salutarci, è venuta da noi alle 6 del mattino. Aveva una luce che mi ha fatta persino commuovere. E io e lei non abbiamo mai avuto modo di fare discorsi importanti, visto l’ostacolo della lingua, eppure mi ha trasmesso tanto, o meglio insegnato. Sarò sempre grata a queste persone
Ho ricevuto tanto, affetto e felicità. I malgasci mi hanno aiutato a ritrovarmi, a stare bene con me stessa, e con gli altri. Ciò è stato possibile anche grazie a dei compagni di viaggio che si sono rivelati delle bellissime persone e con cui si è creato un rapporto fantastico dopo pochi giorni. la sera dopo le lunghe giornate passate con i bambini tornavo a casa stremata ma non mi pesava più di tanto, perché ero talmente soddisfatta di quello che avevo fatto e della gioia che mi infondevano i bambini che la stanchezza passava in secondo piano. E poi, mi sono resa conto di quanto qua in Italia io mi lamentassi, succede anche ora lo dico, per cose veramente inutili. Perché loro che, materialmente non hanno praticamente nulla, non li ho mai visti una volta senza sorriso o voglia di fare. Vuoti materialmente ma ricchi smisuratamente dentro. Il loro stile di vita metterebbe in difficoltà ognuno di noi, eppure a livello umano hanno moltissimo da offrire. In particolare una ragazza mi ha lasciato un segno indelebile. Si chiama Anithosine, ha 21 anni ed è sempre stata vicino ai gruppi che sono scesi prima di me e gli altri, aiutava ed era sempre disponibile. Io l’ho conosciuta il secondo giorno, si è presentata con suo figlio, Richardino di 1 anno , e da quel giorno non ci ha mai mollati un secondo. Si faceva km a piedi per venire da noi e non si è smentita nemmeno l’ultima mattina, quando, per salutarci, è venuta da noi alle 6 del mattino. Aveva una luce che mi ha fatta persino commuovere. E io e lei non abbiamo mai avuto modo di fare discorsi importanti, visto l’ostacolo della lingua, eppure mi ha trasmesso tanto, o meglio insegnato. Sarò sempre grata a queste persone
matilde
Pensando al mese che ho passato in madagascar penso a un periodo in cui mi sono sentita in grande libertà, pur avendo molte più regole rispetto al solito. quando mangiare, i turni delle docce, quando potere uscire e dove andare. ma non erano questi accorgimenti a definire la libertà e la spontaneità delle giornate, bensì i rapporti che abbiamo instaurato con le persone, sempre aperte, generose e positive.
penso di parlare a nome di tutti dicendo che abbiamo imparato dei modi di affrontare la vita estranei al pensiero occidentale: la calma ma anche la vivacità, la capacità di godere appieno dei momenti, la solidarietà tra le persone, la cura per i rapporti con gli altri e l'accoglienza.
la giornata che più mi è rimasta impressa é stata quella passata a pacambo, un piccolo villaggio immerso nella natura senza bagni e elettricità, solo capanne curcuma e zebù.
ci hanno accolti in una capanna, la casa di qualcuno, e ci hanno offerto un tavolo pieno di cocchi litchi e banane. cantando ci hanno accompagnato dalla riva al villaggio, cantando ci hanno accolti nella capanna e sempre cantando ci hanno salutati. ci hanno portato in giro tra la piante, una bambina mi teneva per mano e me le indicava tutte. avrà avuto sette anni, e sapeva il nome di tutte le piante che potevamo vedere. mi ha stupito l'intenso rapporto con la natura, dalla quale dipendevano per avere alimenti e strutture: poteva sembrare spaventoso visto da uno sfondo culturale occidentale che non celebra la forma creatrice e necessaria della natura ma anzi la schiaccia e sfrutta, invece era armonioso e pacifico. i bambini erano selvaggi, correvano e saltavano ovunque e ripetevano urlando le nostre parole ridendo come matti. avevano una vitalità e un'allergia così intensa che non penso rivedrò in altri bambini. li ho salutati con la consapevolezza che non ritroverò più un posto simile. naturalmente c'è una questione più drammatica che chiude il quadro di pacambo, ovvero l'assoluta mancanza di servizi, sociali e sanitari. l'ospedale più vicino è a sei ore di cammino (non hanno altri mezzi), non esiste un servizio sanitario pubblico e i medici privati hanno prezzi inaccessibili. la scuola invece è una semplice capanna, senza libri e materiali, e l'unico mezzo di trasporto accessibile sono le piccole barchette o zattere. ma a differenza delle città, in cui la povertà genera una grande distanza tra le classi, in questo villaggio la comunità è molto unita e valori come la generosità e l'accoglienza sono condivisi da tutti.
un'altro valore, o punto di vista, con cui mi sono sentita subito in sintonia è il mora mora: piano piano. la capacità di gustarsi le cose con calma, la compagnia, la musica, le sensazioni. a volte, però, mora mora bisognava urlarlo ai bambini, quando ti assalivano per abbracciarti fino a farti cadere a terra. o quando, mentre gli facevo dipingere il murales, correvano impazziti coi pennelli in mano per lasciare un disegno sul muro della loro scuola.
siamo tutti collegati nel grande cerchio della vita
penso di parlare a nome di tutti dicendo che abbiamo imparato dei modi di affrontare la vita estranei al pensiero occidentale: la calma ma anche la vivacità, la capacità di godere appieno dei momenti, la solidarietà tra le persone, la cura per i rapporti con gli altri e l'accoglienza.
la giornata che più mi è rimasta impressa é stata quella passata a pacambo, un piccolo villaggio immerso nella natura senza bagni e elettricità, solo capanne curcuma e zebù.
ci hanno accolti in una capanna, la casa di qualcuno, e ci hanno offerto un tavolo pieno di cocchi litchi e banane. cantando ci hanno accompagnato dalla riva al villaggio, cantando ci hanno accolti nella capanna e sempre cantando ci hanno salutati. ci hanno portato in giro tra la piante, una bambina mi teneva per mano e me le indicava tutte. avrà avuto sette anni, e sapeva il nome di tutte le piante che potevamo vedere. mi ha stupito l'intenso rapporto con la natura, dalla quale dipendevano per avere alimenti e strutture: poteva sembrare spaventoso visto da uno sfondo culturale occidentale che non celebra la forma creatrice e necessaria della natura ma anzi la schiaccia e sfrutta, invece era armonioso e pacifico. i bambini erano selvaggi, correvano e saltavano ovunque e ripetevano urlando le nostre parole ridendo come matti. avevano una vitalità e un'allergia così intensa che non penso rivedrò in altri bambini. li ho salutati con la consapevolezza che non ritroverò più un posto simile. naturalmente c'è una questione più drammatica che chiude il quadro di pacambo, ovvero l'assoluta mancanza di servizi, sociali e sanitari. l'ospedale più vicino è a sei ore di cammino (non hanno altri mezzi), non esiste un servizio sanitario pubblico e i medici privati hanno prezzi inaccessibili. la scuola invece è una semplice capanna, senza libri e materiali, e l'unico mezzo di trasporto accessibile sono le piccole barchette o zattere. ma a differenza delle città, in cui la povertà genera una grande distanza tra le classi, in questo villaggio la comunità è molto unita e valori come la generosità e l'accoglienza sono condivisi da tutti.
un'altro valore, o punto di vista, con cui mi sono sentita subito in sintonia è il mora mora: piano piano. la capacità di gustarsi le cose con calma, la compagnia, la musica, le sensazioni. a volte, però, mora mora bisognava urlarlo ai bambini, quando ti assalivano per abbracciarti fino a farti cadere a terra. o quando, mentre gli facevo dipingere il murales, correvano impazziti coi pennelli in mano per lasciare un disegno sul muro della loro scuola.
siamo tutti collegati nel grande cerchio della vita
sara
La cosa che più mi ha colpito e mi ha fatto riflettere sia durante la permanenza in Madagascar sia una volta tornata a casa è stata la concezione che i malgasci hanno della chiesa e più in generale della vita di comunità.
Per loro la chiesa è un centro di aggregazione in cui si ritrovano, chi tutti i giorni, chi la domenica, per stare insieme. Per loro andare a messa è un momento in cui ritrovarsi tutti, un momento bello.
La messa è vissuta come una festa.
Questa atmosfera di festa e divertimento è data soprattutto dalla grande presenza di canti e piccoli balli, che rendono la cerimonia leggera (nonostante la messa duri in media 1,30h/2h). L’approccio con cui i padri missionari si propongono alla gente è totalmente diverso dal nostro. La i sacerdoti cercano di coinvolgere durante l’omelia, fanno domande alle persone, ai bambini, vogliono che il messaggio del vangelo arrivi e posso assicurare che il messaggio della buona notizia del vangelo arriva al cuore della gente.
Foto chiesetta: vorrei raccontarvi un episodio che è stato la fonte da cui è partita la mia riflessione. Mentre stavamo andando a Pacambo ci siamo fermati in un villaggio sulla riva del fiume che produceva grafite, si trovava a quasi 40 minuti di navigazione da Anivorano e aveva circa una 15ina di capanne. Tra queste però ci è subito saltata all’occhio una piccola chiesa fatta di lamiere all’esterno e di tronchi d’albero come panche all’interno. Era piccola da contenere non più di 20/35 persone, ma gli abitanti con tutto quello che potevano costruire hanno deciso di costruire una chiesa. Nonostante abbiano poco niente, quel poco lo hanno usato per costruire qualcosa che accogliesse tutti, in cui potersi ritrovare e rifugiare.
Comunità: Là la gente sente il bisogno di vivere in comunità, questo bisogno è un bisogno sano di sentirsi parte di una “comunità” per superare il senso profondo di solitudine e di impotenza che porta l’uomo stesso allo smarrimento.
Essere in comunità significa sentirsi in connessione con gli altri per partecipare ad una sorta di una convivenza intima, caratterizzata da emozioni di collaborazione ,simpatia e reciproco scambio. Il senso di appartenenza ad una comunità nasce dal condividere un senso comune un progetto di vita.
Questo è il senso di comunità che da noi sta un po’ affievolendo se non addirittura sparendo, quindi vorrei lasciarvi con una domanda, che è la stessa che mi sono posta io quando sono tornata dal Madagascar: Quale strada possiamo percorrere per ricostruire la comunità e il senso di comunità? Tra le mie risposte che ho maturato in questi mesi, il bisogno di porre attenzione al momento presente come modo per uscire dai limiti dell’ego , ampliare il senso del sé e coltivare la connessione nelle relazioni con gli altri.
Per loro la chiesa è un centro di aggregazione in cui si ritrovano, chi tutti i giorni, chi la domenica, per stare insieme. Per loro andare a messa è un momento in cui ritrovarsi tutti, un momento bello.
La messa è vissuta come una festa.
Questa atmosfera di festa e divertimento è data soprattutto dalla grande presenza di canti e piccoli balli, che rendono la cerimonia leggera (nonostante la messa duri in media 1,30h/2h). L’approccio con cui i padri missionari si propongono alla gente è totalmente diverso dal nostro. La i sacerdoti cercano di coinvolgere durante l’omelia, fanno domande alle persone, ai bambini, vogliono che il messaggio del vangelo arrivi e posso assicurare che il messaggio della buona notizia del vangelo arriva al cuore della gente.
Foto chiesetta: vorrei raccontarvi un episodio che è stato la fonte da cui è partita la mia riflessione. Mentre stavamo andando a Pacambo ci siamo fermati in un villaggio sulla riva del fiume che produceva grafite, si trovava a quasi 40 minuti di navigazione da Anivorano e aveva circa una 15ina di capanne. Tra queste però ci è subito saltata all’occhio una piccola chiesa fatta di lamiere all’esterno e di tronchi d’albero come panche all’interno. Era piccola da contenere non più di 20/35 persone, ma gli abitanti con tutto quello che potevano costruire hanno deciso di costruire una chiesa. Nonostante abbiano poco niente, quel poco lo hanno usato per costruire qualcosa che accogliesse tutti, in cui potersi ritrovare e rifugiare.
Comunità: Là la gente sente il bisogno di vivere in comunità, questo bisogno è un bisogno sano di sentirsi parte di una “comunità” per superare il senso profondo di solitudine e di impotenza che porta l’uomo stesso allo smarrimento.
Essere in comunità significa sentirsi in connessione con gli altri per partecipare ad una sorta di una convivenza intima, caratterizzata da emozioni di collaborazione ,simpatia e reciproco scambio. Il senso di appartenenza ad una comunità nasce dal condividere un senso comune un progetto di vita.
Questo è il senso di comunità che da noi sta un po’ affievolendo se non addirittura sparendo, quindi vorrei lasciarvi con una domanda, che è la stessa che mi sono posta io quando sono tornata dal Madagascar: Quale strada possiamo percorrere per ricostruire la comunità e il senso di comunità? Tra le mie risposte che ho maturato in questi mesi, il bisogno di porre attenzione al momento presente come modo per uscire dai limiti dell’ego , ampliare il senso del sé e coltivare la connessione nelle relazioni con gli altri.